martedì 8 gennaio 2008

nervi e sole (o la cosa chiamata poesia/12)




Epoca

Qui non riposa un passato
che chiamai con una campana
perché si sveglino le cose
e mi circondino gli anelli
che lasciarono le dita
ubbidendo alla morte:

non voglio ricostruire
le mani né i dolori:

poi tutto morirà
una volta per tutte, forse,
questo secolo dell'agonìa
che c'insegnò ad assassinare
e a morire da superstiti.



Sappiate, sappiatelo, sappiatelo

Ahi, la menzogna che vivemmo
fu il nostro pane quotidiano.
Signori del secolo ventuno
è necessario che si sappia
quello che noi non sapemmo,
che si veda il contro ed il pro,
perché non lo vedemmo noi,
e che nessuno mangi più
l'alimento menzognero
che ci nutriva nel nostro tempo.

Fu il secolo comunicativo
delle incomunicazioni:
i cablogrammi sotto il mare
a volte furono veri
quando la menzogna giunse
ad avere maggior latitudine
e longitudine dell'oceano:
i linguaggi si abituarono
a preparare la finzione,
a suggerire le minacce;
le lunghe lingue del cablogramma
arrotolarono come serpenti
l'impostura colossale,
finché tutti condividemmo
la battaglia della menzogna
e dopo aver mentito correndo
andammo mentendo a uccidere,
giungemmo mentendo a morire.

Mentivamo con gli amici
nella tristezza o nel silenzio,
e il nemico ci mentì
con la bocca piena d'odio.

Fu l'età fredda della guerra.

L'età tranquilla dell'odio.

Una bomba di quando in quando
bruciava l'anima del Vietnam.

E Dio entro il suo nascondiglio
spiava come un ragno
i remoti provinciali
che con sonnolenta passione
cadevano nell'adulterio.



Unità

Questa foglia sono tutte le foglie,
questo fiore sono tutti i petali
e una menzogna è l'abbondanza.
Perché ogni frutto è lo stesso,
gli alberi sono uno solo
ed è un solo fiore la terra.



Sempre io

Io che volevo parlare del secolo
dentro questo rampicante,
che è il mio libro sempre nascente,
in ogni parte mi sono trovato
che mi sfuggivano i fatti.
Con buona fede che riconosco
ho aperto i cassetti al vento,
gli armadi, i cimiteri,
i calendari con i loro mesi:
per le fenditure che s'aprivano
mi compariva il mio volto.

Per quanto stanco io fossi
della mia persona inaccettabile
tornavo a parlare di essa
e ciò che mi sembra peggiore
dipingendo un avvenimento
io dipingevo me stesso.

Che idiota sono, dissi mille volte,
praticando con maestria
le descrizioni di me stesso
come se non fosse esistito
niente di meglio che la mia testa,
nulla di meglio dei miei errori.

Voglio sapere, fratelli miei,
dissi all'Unione dei pescatori,
se tutti amano come me.
La verità - mi risposero -
è che noi peschiamo pesci
e tu peschi te stesso,
poi torni a ripescarti
e a gettarti di nuovo in mare.


Pablo Neruda, Fine del mondo, 1970, trad. di Giuseppe Bellini

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